Annalisa Cima
Canti della primavera 
e della sopravvivenza
Prefazione di Paolo Cherchi
Edizioni Pulcinoelefante,
Osnago, maggio 2001

 

presentazione di Paolo Cherchi a

CANTI DELLA PRIMAVERA E DELLA SOPRAVVIVENZA

 

la lunga fedeltà ad un poeta ha i suoi compensi, fra i quali primeggia il piacere di avvertire con immediatezza e di valutare meglio di altri lettori occasionali le innovazioni o le variazioni che ogni nuova opera realizza su quei nuclei tematici che ogni vero artista conserva per tutto il suo viaggio produttivo. Ed eccone un esempio fulgido. Annalisa Cima ha pubblicato ormai vari libri di poesia, e avendola seguita per molti anni mi rendo conto che sarebbe stato possibile prevedere l’apparizione di quest’ultimo libro; ma ciò che non avrei potuto prevedere era la forma che avrebbe preso una materia che in qualche modo mi era familiare. Fin dalle sue prime raccolte (Terzo modo e Genesi, rispettivamente del 1969 e 1971) spiccano alcuni temi che sono rimasti nelle raccolte successive: sono temi definibili come "metafisica della materia" o come "consustanziazione di materia e spirito". In Genesi, ad esempio, domina la preoccupazione per una sorta di traducianesimo, l’angoscia di capire se e come l’anima o l’essenza individuale si trasmetta da padre in figlio, creando il dramma di un fatalismo e di un persistere immutabile o sempre identico dell’essere in una storia che muta (o così almeno sembra) incessantemente. Il mistero del connubio tra materia e spirito - che è come dire il mistero della vita - è alla radice della posizione sentimentale-simbolista che ispira i versi di Sesamon, ma anche alla radice della gioia di vivere che si celebra nelle danze e nei ritmi mozartiani di Ipotesi d’amore, forse il più "materialistico" dei libri di Annalisa Cima, anche se da quel materialismo tutto gioia è insediato da una malinconia così settecentesca (ora messa in luce in un bel libro di Giorgio Ficara su Giacomo Casanova), sorella del sogno della ragione. Era prevedibile che Annalisa Cima tornasse su questo nucleo di temi. Era anche prevedibile che tornasse alla forma "lunga" del poema, alla maniera dei suoi primi lavori, composizioni di respiro ampio come richiede il poema filosofico. Anche l’organicità della raccolta era prevedibile perché Analisa Cima, fatto anch’esso insolito nel panorama della poesia attuale, costruisce le sue raccolte mirando ad un discorso compiuto, ciclico, organico. Ma non era prevedibile la svolta che il tema avrebbe preso in questo libro che racconta, per così dire, una storia o una fiaba, un sogno o una visione intellettuale o un’evasione gioiosa nel mare dell’essere, un trionfo di chi intelligendo vive e spiega un canto a voce piena. Canti della Primavera e della Sopravvivenza è diviso in tre componimenti di cui il primo ("Confessione di un essere e non ...") funge quasi da introduzione; il secondo ("Canto d’amore tra la rosa e il giglio"), l’inno gioioso con una coda metricamente differenziata in cui ritorna un io lirico che stabilisce quasi un’introduzione a quello che segue; infine "Gioia della Primavera" in cui il canto prende avvio da un verso di una vecchia canzone gaelica e che, come un ritornello che si arricchisce man mano di nuovi versi, s’intreccia al resto del poema scandendone il tempo e cifrandone il senso; e sui versi della ballata antica e linguisticamente remota si chiude quest’inno alla primavera. La "confessione" iniziale si apre con due efficaci "rapportationes" tematicamente focalizzate su un forte "sono" e sulle proprietà di quella voce che dice "io". Sono proprietà che sottolineano la "monadica" natura di chi officierà il rito del canto. La chiusa della strofa, però, presenta un profilo di quell’io leggermente diverso perché il "monadismo" assume una struttura di bipolarità; e la contraddizione si manifesta come una forma di vita ("vivo") che, però, resiste ad ogni forma di compromesso, preferendo le lacerazioni del vivere opposti assoluti all’ipocrisia dell’ibrido, alla meschinità delle comode conversioni. Ma ecco che nell’immagine dei capelli che quasi continuano il cranio trasformandolo in qualcosa di leggero, di aereo (la materia che si rarefà diventando eterea, quasi spirito), annuncia una sorta di bagno lustrale e di invasamento, avverte un forza ctonia che come una grande calamita attrae e assimila, una terrestrità animata da animali forti che imprimono la loro carnalità nell’elemento che li ospita e li consegna al tempo dopo averli trasformati in essenze geometriche, in forze di linee o di stampi disposti a rivivere in nuove carni modellate dalla stessa geometria: tanta proteiformità non è dispersione di energia, ma è l’energia stessa che si sorprende in modo divertito (quasi d devinalh provenzale) del proprio esistere in forma sempre diversa. La mente ormai si dispone all’oracolo o alla visione, in una specie di orfismo che scende nell’ignoto per cercarvi vita e luce. È lo stato indispensabile per iniziare il rito che supererà monadismo e contraddizioni in una simbiosi, in cui il "sono", privo di accidenti, si immergerà, perdendosi, nell’ "essere". Il rito è propiziatorio, e si attende un cavaliere che riporti un canto d’amore, anzi dell’amore smarrito che rivelerà finalmente il connubio di materia e spirito. A lui spetterà in dono una rosa. L’immagine del fiore - carico del significato simbolico che la tradizione gli ha dato - fa nascere come per sortilegio l’inno che segue. L’io lirico cede tutto lo spazio a nuovi impensati protagonisti. I quali sono la rosa e il giglio, che sono simbolo e prestanome di Tancredi e Clorinda, due personaggi letterari che nascono dalla guerra all’amore, simbolo della diade/uno. La rosa e il giglio - ancora una volta si fa chiara la valenza simbolica - si trovano non in "contrasto", come voleva la tradizione medievale, ma in concento, vale a dire accomunati in un "canto". È il canto dell’Eros, la forza che propizia l’incontro di una monade con un’altra in una simbiosi che è la vita, che è l’essere come divenire, come assolutezza in moto, come natura naturans. Per dirlo in modo più semplice e circostanziato alla poesia di Annalisa Cima: la sua ricerca precedente puntava ad apprendere quel punto zero dell’essere, la radice ontica del tutto, l’assoluta immobilità in cui natura e spirito si consustanziano senza consentire movimento perché questo significherebbe imperfezione tempo e spazio. Ora la ricerca è verso quel punto zero in cui la materia diventa energia, quell’ineffabile momento in cui materia e vita s’incontrano come il filo del coltello e la lama (per usare un’immagine di Aristotele), il mistero di un’energia che rigenera se stessa e che pure non conosce tempo e non conosce spazio. Il possibile paradosso di un movimento immobile realizzato nel vuoto/pieno si evince dal canto di questo stupendo inno di autentica forza lirica e di qualità veramente alta. È un inno che potrebbe essere di tipo neoclassico per il nitore delle immagini e per la sua sospensione nel tempo, direi mitica; non lo è perché gli manca una decisa regolarità strofica; ma se l’avesse non sarebbe poi quel canto pieno di sussulti bacchici, quasi un tripudio cosmico di energie che si intersecano e si compongono in nuove forme cariche a loro volta di energia centrifuga. Possiamo dire che sia un canto della "simpatia della natura", di una natura che vive nell’eros e per l’eros degli amanti, insieme spettatrice e partecipe di liturgie amorose, una natura surrogata in un rito di amore. In quel rito partecipano sia la rosa e il giglio che Tancredi e Clorinda. Lo scambio tra le due coppie avviene impercettibilmente ma non senza un significato profondo: al livello simbolico sono due coppie d’amore ma al livello della denotazione sono diversi perché la prima è una coppia di elementi naturali e la seconda di personaggi storico-letterari. L’accostamento ci fa capire un modo di intendere il tempo perché la prima coppia annuncia un tempo ciclico mentre la seconda indica un tempo scandito dagli eventi, un tempo con una cronologia lineare. Sennonché il tempo di Tancredi e Clorida è anche un tempo letterario, vale a dire misura di un evento che in realtà sta fuori del tempo perché così vuole la finzione letteraria: Tancredi e Clorinda sono reali/irreali, legati ad un tempo che non ha un prima e non ha un dopo, e come tutti i tempi mitici appartengono al "sempre". L’accostamento delle due coppie da una parte antropomorfizza la rosa e il giglio e dall’altra riduce a simboli naturali due persone storico-letteraria: è così possibile fondere due realtà appartenenti a generi diversi, e la storia si consustanzia con la natura, in una simbiosi che cancella i limiti dei generi, simbiosi viva che tutto travolge assorbendolo nel vortice di un cosmo infuocato d’amore. Il tema di quest’inno ricorda i temi neoplatonici, i temi della "simpatia della natura" cantati da un Claudiano e da un Petrarca, ricorda la panicità del D’annunzio alcyonio ... "ricorda", dico, non perché Annalisa Cima abbia necessariamente presenti questi poeti (ma che sia un poetessa coltissima, frequentatrice del mondo classico e della grande letteratura in generale, è un fatto risaputo), ma è il lettore a "ricordare" perché ha bisogno di orientarsi davanti ad un prodotto così originale. E alla ricerca di parametri ci orientiamo subito verso il mondo classico perché ci spingono a farlo i frequenti richiami a divinità mitologiche, anzi, per essere più precisi e con migliore leva interpretativa, vediamo che i richiami più frequenti non sono alle divinità maggiori, bensì a semidivinità (satiri, sirene, amedriadi) che chiameremmo piuttosto "dèmoni", che non conoscono rivalità e invidie, esseri dal profilo scarsamente individuato che vivono in coro e in una presenza di continuità inalterata, senza storia: anche questo richiamo, dunque, si allea a quello dei miti nel convogliare un senso del tempo fuori di ogni preciso riferimento cronotopico. Al mondo classico fa pensare il vigore di certe immagini, il lessico prezioso, l’affabulazione mitopoetica, l’enargeia, ossia la vividezza delle immagini, il senso del chaos prodotto dall’evocazione di animali "forti" (il serpente che sugge il latte di bovini) che riportano ricordi di cosmogonie esiodee in cui si scontrano amori e odi da titani, il chaos in cui anche il tempo non ha trovato altra misura se non quella dell’energia. Alla tradizione neoplatonizzante fa pensare quel soffio ispiratore, una specie di "anima mundi" che lega insieme le vite del pianeta e dell’universo. Alla panicità alcyonia fa pensare la disposizione sensuale a capire, a recepire il tutto, in un’immersione nella gioia della natura che si rigenera. Eppure questi paramentri non esauriscono il discorso, non ci dicono ancora tutto. La novità assoluta nei termini della poesia di Annalisa Cima è che la sua ricerca di assoluti questa volta non sia pervenuta ad intravvedere un punto fermo, inerte e inattingibile, una sorta di ontologia disperante ed estranea, un immobile tutto/tutto, bensì un punto primo mobile, una fonte di vita, un punto che è la "generazione" stessa, il segreto della vita. La ricerca della metafisica ha portato a scoprirla in chi la cerca, in chi capisce che abbiamo in noi il segreto che cerchiamo. Basta dargli la parola giusta per capirlo: amore/eros con tutto il nostro essere con tutta la materialità dei nostri sensi e con l’intelligenza che rinuncia al suo individualismo estraneante, che cerca invece forme di fusione, di androgenia. Mentre il monadismo è sterile, la vera potenza creatrice nasce dalla sinergia di rose e gigli, e ciò che viene creato a sua volta si realizza nella ripetizione di sé. L’essere è mobile perché rimane identico nel suo ripetersi: per questo si realizza in un rito, e il rito a sua volta celebra la natura dell’essere. È il motivo per cui si celebra l’annullamento del tempo e dello spazio, o se si vuole il tempo è visto come l’eterno ritorno della primavera, la stagione del rinnovamento della natura, della fecondazione. Gli antropologi ci hanno insegnato che il tempo è il grande nemico dell’uomo: noi lo superiamo simbolicamente con la circoncisione che, simbolicamente, appunto, elimina la differenza sessuale - di per se stessa sterile e completata solo nell’unione dell’altro sesso - e avvicina l’uomo alle divinità primitive, sessualmente indifferenziate e fuori del tempo; noi lo superiamo con la comunione che ci dà l’eterno nel momento in cui riceviamo l’ostia; lo vinciamo con la lettura che annulla il nostro tempo nel tempo del racconto che a sua volta è fuori dal tempo; lo vinciamo con l’amore, perché, come diceva anche S. Tomaso, la felicità in amore annulla la coscienza del tempo: "delectatio secundum se quidem non est in tempore: est enim delectatio in bono iam adepto quod est quasi terminus motus" (Sum. Th. 1-2 q. 31, a. 2) Noi superiamo il tempo vivendolo come dovremmo, ossia con l’amore che lo celebra e che lo realizza nell’essere. Questa percezione della lite/amore dell’universo (lo diceva Eraclito) è inebriante come lo sono le rivelazioni di verità supreme che persone fortunate attingono in momenti di vera grazia intellettuale. Sono rivelazioni esaltanti e inebrianti ma anche spossanti. L’io lirico rispunta come uscito da un trance, come folgorato da una violenza intellettuale, da un raptus difficile da spiegare e che solo i ricordi di un viaggio nell’abisso dell’universo impersonato in Orfeo, di un dio della violenza inebriante come Bacco, di una dea che cifra l’intera forza che tiene l’universo, e il ricordo di un modello come Dante che vide "l’amor che muove il sole e l’altre stelle", consentono di rendere analogicamente questo risveglio da un sublime stupore. Una sorta di gioiosa ripresa di sensi, che si muove in un reticolato metrico nuovo, con allusioni al mondo delle favole ("specchio delle mie brame") indicanti l’incredulità di chi ha conosciuto "tutta" la verità scoprendola in sé, nel mondo del quotidiano, nell’insorgere della passione che spinge l’animo peregrino ai confini dell’universo a conoscere le infinite mistioni e gli infiniti effluvi che piovono dai cieli fino agli insetti più insignificanti della terra. Questo "solo reame" non è l’inferno di chi sta lontano dall’essere, ma è il paradiso di chi s’individua nell’essere e in esso si rigenera. La gioia ora si paca nella riscoperta del canto. Ma non canto monodico, bensì canto, quasi una ballata, a due voci, a due lingue a due tempi: perché in "Gioia della primavera" s’intrecciano due voci, una che fa da "volta" e l’altra che funge da commento: la ballata gaelica ha il sapore mitico dei canti popolari, la glossa culta ne ritrascrive il significato in termini universali; si ripete in tal modo l’accostamento della rosa e del giglio con la coppia Tancredi/Clorinda. I due testi creano una simbiosi di antico e di moderno (leggi= superamento del tempo) di lingue diverse (leggi= superamento dello spazio), di anonimo collettivo e di individuale (leggi = rigenerazione dell’io nel tutto e individuazione del tutto nell’io), di popolare e colto (leggi= di mito e di riflessione filosofica) ... si ripetono, insomma, i temi centrali dell’intero poema. Ma ciò non basta a spiegare la malia di questa sezione conclusiva. Quella simbiosi è in realtà un concerto con un solista che s’identifica con il leit motiv cioè un verso della canzone gaelica, leit motiv che si ripete ad intervalli e che si allarga ogni volta includendo nuovi versi dell’antica canzone, come se man mano il canto andasse sostituendosi alla glossa, e la malia della musica assorbisse tutta la complessità del pensiero trasformandolo in sentimento di gioia. Il recupero di un canto antico riporta paradossalmente la freschezza di quello che è sempre vero, la cui semplicità è atemporale e pertanto inalterabile, forte della forza dei proverbi e della preghiera insieme, con il calore del desiderio di chi vuole amare, cioè vivere. Questo motivo, prevalendo sulla glossa, chiude il poema con i versi "Love is come again Like wheat that springeth green", cioè con quell’immagine del grano che simbolizza il ritorno, l’eterno ritorno della primavera, periodo della "seminagione". Ma il grano simbolizza anche il lavoro (in sardo il raccolto del grano si chiama "su laore", ossia il lavoro per antonomasia) ritualizzato. Anche la generazione, l’amore che si canta in questa nuova opera di Annalisa Cima è rito e lavoro perché "labor est etiam ipsa voluptas". La sezione finale del canto abbonda di note di dolce intimismo con tonalità decadentiste, ed è ricca di immagini relative alla "laboriosità" dell’amore, dall’ape alla rondine. E ritorna perfino il fauno non più propiziatore di riti ma spettatore degli stessi. Anche l’arte è lavoro perché è creazione, ed è creazione perché è amore, coraggio, perfino narcisismo (non è forse Dio il sommo Narciso che creò il mondo a sua immagine e somiglianza?, ma anche per lui la molla prima era l’amore): solo i poeti nani non creano e ai poeti falsi è preclusa la gioia del vero amore. Nel poema corre una felicità nuova di chi ha unito la rosa e il giglio di chi riscopre quello che sempre sapeva ma non sapeva quanto fosse vero in termini esistenziali. E l’io oblia se stesso nel canto antico in altra lingua, nel canto del più semplice degli amori. Anche San Francesco nei momenti di estasi cantava canzoni dei trovatori. Quanto durerà questa felicità, questo stato di gioiosa e obliosa sintonia con l’eros universale? Chi ha seguito Annalisa Cima fino a questo punto può prevedere con una certa plausibilità che torneranno forse altre primavere, ma torneranno anche i ripiegamenti più doloranti perché quello che ritorna non ci avrà eternamente come fruitori e spettatori. Quello che non possiamo prevedere è quali vie nuove troverà la magia della creazione poetica di Annalisa Cima.

Paolo Cherchi